Mente e tecnologia, mente e Montessori

Il cervello non ha fatto in tempo a evolvere per adattarsi ai ritmi e alle esigenze del mondo tecnologico. Se teniamo presente che il primo personal computer prodotto su scala industriale – l’Apple II – è del 1977, il primo sito web viene creato nel 1991, mentre il primo iPhone viene presentato a metà 2007, è evidente che in questo lasso di tempo si evolvono solo i batteri. Andando indietro nel tempo, non possiamo negare che anche l’invenzione della scrittura in Mesopotamia sia recente, poiché risale a poco più di cinquemila anni fa. Per imparare a leggere, come per usare uno strumento tecnologico, il cervello umano non ha evoluto nuovi circuiti, non ne ha avuto il tempo, ma ha dovuto e ancora oggi ogni volta deve – daccapo – creare sofisticati collegamenti
tra strutture neuronali in origine preposte ad altri più basilari processi, come la vista e la comprensione della lingua parlata. Come per la lettura, è indubbio che qualche tipo di mutamento,
qualche cambiamento nelle connessioni neurali sia avvenuto nel cervello dei nativi digitali. Non possiamo negare, infatti, che la società digitale abbia modificato le loro capacità cognitive verso forme d’intelligenza utilitaristica, più veloce e rapida anche se meno concentrata e analitica. In un certo senso stanno “modificandosi” verso un’intelligenza fluida che meglio si adatta al mondo digitale; un’intelligenza. capace di trovare un significato nella confusione delle informazioni che li bombardano.
Non è evoluzione certo, però è altrettanto vero che con l’esercizio il cervello cambia, come si vede chiaramente in quello di chi sta imparando a suonare uno strumento musicale. Per esempio, man mano che un pianista si esercita, le aree della corteccia cerebrale predisposte al controllo delle dita si ingrandiscono e la materia bianca si ispessisce. È pure ovvio che il cervello umano venga modificato alla stessa maniera dall’uso di smartphone e tablet, in particolare dal rapido e frequente movimento delle dita sullo schermo. Dacché è lo stesso tipo di modifica del cervello
dovuta all’esercizio, non lo definirei un effetto legato alla tecnologia.
Un altro segno di questo cambiamento del cervello è l’effetto Flynn, l’aumento del quoziente intellettivo (QI) medio della popolazione, osservato da James Flynn nel corso degli anni, con una crescita attorno ai tre punti per ogni decennio. L’effetto deriva molto probabilmente da una maggiore capacità di risolvere problemi logici e astratti, frequenti nell’ambiente sociale e culturale odierno. Oppure potrebbe derivare da come è via via cambiato il modo di concepire l’educazione delle nuove generazioni cui si cerca d’insegnare a “pensare con la propria testa”.
Non è strano quindi che cambiamenti sociali di tale portata abbiano dato luogo a un aumento generalizzato del QI.
Dal 1990 l’effetto si sta, però, invertendo, come ha scoperto uno studio del 20086. Che cosa è accaduto? Potrebbe essere cambiato lo schema relazionale delle famiglie che, anche se i genitori desiderano per i figli un’istruzione eccellente, in media dedicano molto meno tempo per la loro educazione a casa, tempo che i piccoli passano davanti al televisore o con videogiochi che forse non insegnano a pensare.
Un’ipotesi in accordo con i risultati di uno studio più recente che parte invece dai dati sulla creatività, dove si dimostra che, almeno negli Stati Uniti, le capacità creative sono cresciute fino al 1990 e poi hanno iniziato a declinare.
Viste le ripercussioni delle tecnologie sulla mente umana, è facile per i media sparare titoli a effetto, come “La demenza digitale”8 o “Google ci sta rendendo stupidi?”9 oppure dire tutto e il contrario di tutto sulle conseguenze o sui benefici della tecnologia a scuola, mentre si ignorano le ricerche scientifiche più serie. La realtà è che gli scienziati non sanno bene quali siano gli effetti a lungo termine delle tecnologie sullo sviluppo cognitivo e socio-emotivo e sulla costruzione della propria identità. Problema complicato dal fatto che la “tecnologia” non è un’entità unica e quindi è difficile pensare che abbia un unico effetto. Consoliamoci. Non solo gli scienziati, anche i pedagogisti spesso non hanno chiara l’efficacia futura del software educativo e didattico che propongono e finiscono per offrire prove a sostegno solamente aneddotiche.
Ora torniamo a Montessori. Alla Dottoressa non piaceva che la sua proposta fosse chiamata “metodo”, vale a dire un insieme organico di regole per svolgere un’attività. Per questo, nell’analizzare il rapporto tra il progetto educativo montessoriano e la tecnologia, è importante che ci focalizziamo sul perché nel Montessori si fanno certe cose e si fanno in una certa maniera. Harrington Emerson era convinto dell’importanza di un tale approccio: “Per quanto riguarda i metodi ce ne possono essere un milione e passa, ma i princìpi sono pochi. L’uomo che  coglie i princìpi può scegliere con successo i suoi metodi. L’uomo che si fissa sui metodi, ignorando i princìpi, avrà sicuramente problemi”.
Se partiamo, quindi, dall’analizzare alcuni aspetti del funzionamento della mente e di come le idee di Maria Montessori siano in perfetta sintonia con tali meccanismi, non avremo problemi e acquisteremo una comprensione più profonda e solida del perché materiali “a bassa tecnologia” come quelli che troviamo in una scuola Montessori generino effetti duraturi sullo sviluppo della mente del bambino, molto più che l’ultimo gadget elettronico.

Autore: Mario Valle, Scienziato e Presidente dell’Associazione Montessori Scuola Pubblica

tratto da “La pedagogia Montessori e le nuove tecnologie” – Leone Verde Editore, Collana Appunti Montessori

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